Poco più della metà degli ospedali italiani che erano considerati “critici” per la qualità dei loro servizi sanitari, a distanza di tre anni ha fatto registrare miglioramenti significativi, fino a raggiungere la qualità media nazionale. È il risultato di un’indagine, pubblicata sulla rivista Healthcare, che ha analizzato i dati del Piano Nazionale Esiti sul rischio di decesso post-ricovero per diverse malattie gravi e di alta frequenza.

“I risultati del nostro studio mostrano che, dei 288 ospedali considerati ‘critici’ nel 2016, circa la metà è stata in grado di migliorare sensibilmente dopo più di tre anni di distanza dalla comunicazione dei risultati, ovvero dopo un tempo congruo per porre in atto interventi migliorativi”, spiega Lamberto Manzoli (foto), medico epidemiologo e professore al Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Bologna, che ha guidato lo studio. “Può sembrare un dato negativo, ma è migliore di quello rilevato in altre nazioni, ed è riferito ad ospedali in difficoltà, dove non è assolutamente semplice ottenere miglioramenti. Inoltre, nelle regioni del Centro-Nord il tasso di miglioramento è stato vicino al 70%, un dato molto positivo”.

Gestito dall’Agenzia Nazionale per Servizi Sanitari Regionali, il Piano Nazionale Esiti (PNE) è un sistema di valutazione della qualità dei servizi sanitari. Ogni anno, il PNE fornisce un report sulla qualità di tutti gli ospedali italiani, nel quale viene calcolato il rischio di decesso successivo al ricovero per malattie ad alto impatto. Gli ospedali nei quali si rileva la più alta percentuale di pazienti deceduti – a parità di altri fattori di rischio – sono considerati critici, e vengono suggeriti interventi mirati a capire le cause e migliorare la qualità.

Il PNE esiste da più di dieci anni e, nel confronto con i sistemi di altre nazioni, è considerato un sistema valido e metodologicamente solido. Tuttavia, è sempre stato difficile valutare l’impatto del sistema sulla qualità complessiva dei servizi, e in particolare se e quanto gli ospedali identificati come “critici” siano stati poi in grado di migliorare i propri servizi.

Lo ha fatto, per la prima volta, questa nuova indagine – che ha coinvolto anche studiosi dell’Università di Ferrara – seguendo per cinque anni le performance degli ospedali con i risultati peggiori. L’obiettivo era capire quanti di questi siano riusciti a migliorare fino ad avvicinarsi – o superare – la media nazionale, e quanti invece abbiano continuato a mostrare un rischio di decesso elevato per i propri pazienti.

Dai risultati emerge che il 51% degli ospedali considerati “critici” ha mostrato dei miglioramenti nella qualità dei servizi sanitari. Di questi, il 27% è migliorato al punto di raggiungere la media nazionale. Nel 37% dei casi, però, il rischio di decesso successivo al ricovero per malattie ad alto impatto resta alto. C’è inoltre un divario geografico significativo: tra gli ospedali che hanno mostrato miglioramenti nel periodo preso in considerazione, il 39% si trova nelle regioni del Sud, mentre il 68% si trova nel Centro o nel Nord Italia.

“Certamente occorrerà concentrare gli sforzi nelle grandi regioni del Sud, dove meno del 40% degli ospedali è riuscito a migliorare, ma credo che gli esperti del PNE ne siano già ben consapevoli”, dice Manzoli. “Tuttavia, avere una stima quantitativa precisa sull’efficacia del sistema di valutazione può, da un lato, rassicurare i cittadini e il Ministero, e dall’altro permettere di valutare se in futuro, tramite una revisione delle strategie di miglioramento, l’impatto del sistema potrà ulteriormente crescere”.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Healthcare con il titolo “Impact of the Italian Healthcare Outcomes Program (PNE) on the Care Quality of the Poorest Performing Hospitals”. L’indagine è stata coordinata da Lamberto Manzoli, professore al Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Bologna. Hanno inoltre partecipato Matteo Fiore e Alessandro Bianconi dell’Università di Bologna, Maria Elena Flacco, Annalisa Rosso ed Enrico Zauli dell’Università di Ferrara, e Cecilia Acuti Martellucci della ASUR Marche.

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