Quattro serate con i capolavori di Billy Wilder Sotto le stelle del cinema: primo appuntamento domani, mercoledì 11 luglio, alle ore 21.45 in Piazza Maggiore, con una delle sue indimenticabili commedie (con una altrettanto indimenticabile Marilyn Monroe), Quando la moglie è in vacanza (serata promossa da Acantho). Giovedì 12 luglio, sarà la volta della coppia Humphrey Bogart / Audrey Hepburn in Sabrina (serata promossa da Pelliconi). L’appartamento e le disavventure di Jack Lemmon e Shirley MacLaine sono
invece in programma venerdì 13 luglio (serata promossa da Lloyds Farmacia). Una virata noir (il co-sceneggiatore è Raymond Chandler) sarà invece quella di sabato 14 luglio, con La fiamma del peccato, interpretato da Barbara Stanwyck e Fred MacMurray (serata promossa da Mare Termale Bolognese).

 

Mercoledì 11 luglio, ore 21.45, Piazza Maggiore
QUANDO LA MOGLIE È IN VACANZA (The Seven Year Itch, USA/1955) di Billy
Wilder (105’)

Devo dire che non era facile lavorarci insieme. Ma quello che, di riffa o di raffa, riuscivi a estorcerle poi, sullo schermo, risplendeva. Una vera meraviglia. Inoltre, lo si creda o no, era un’eccellente attrice comica. Sapeva esattamente a che punto sarebbe arrivata la risata. Però poteva anche succedere che trecento comparse stessero lì ad aspettare Miss Monroe dalle nove del mattino e che lei arrivasse sul set alle cinque del pomeriggio… dicendo: “Mi spiace, non riuscivo a trovare la strada”. E lavorava in quello studio da
sette anni! In un certo senso lei e la cinepresa erano fatte l’una per l’altra. Qualunque cosa le facessi fare, ovunque la mettessi, il risultato sullo schermo era meraviglioso. Lei non se ne rendeva neanche conto. (Billy Wilder)

Una torrida notte dell’estate 1955, a New York. Mogli e frugoletti al mare. Mentre gli scapoli pro tempore di Manhattan si limitano a sciamare in gruppo cacciando donne vere, il piccolo editor di cattiva letteratura Tom Ewell (Wilder avrebbe voluto lo sconosciuto Walter Matthau, a cui aveva fatto un provino ‘folgorante’) inventa solo per sé Marilyn Monroe: ne disegna i contorni morbidi e auratici fin da prima che appaia, nel controluce oltre la porta, ne nutre con cura l’immagine sontuosa, carezzevole e aliena. Rinuncia solo a darle un nome, confermandola così creatura hollywoodiana (creatura come la creature from the black lagoon, con cui lei istintivamente fraternizza) assoluta, autoreferenziale, definibile solo per tautologia: “D’accordo, ho una bionda in casa. Ho Marilyn Monroe nella doccia!” è la battuta paradossale che segna il punto di crisi, e la decisione di uscire dalla fantasia voluttuosa. Tracce vistose di Quando la moglie è in vacanza sono rimaste nell’immaginario (para) cinematografico: trovo che l’immagine più memorabile sia Marilyn nella vasca, tra nuvole di schiuma e lampi di pelle nuda, l’alluce infilato nel rubinetto e l’idraulico a contemplare la scena, splendida per concretezza surreale; più celebre è certamente lo svolazzare della gonna bianca sollevata dal soffio della metropolitana, davvero però
troppo usurata, e peraltro, nei due takes montati da Wilder, meno generosa e voyeuristica di quanto risulti dalle infinitamente replicate foto di scena. Quel plissé candido, vagamente anticipato nel Magnifico scherzo, resta comunque il capolavoro di Billy Travilla, capocostumista della Fox, l’uomo che veste Marilyn Monroe prima di A qualcuno piace caldo e del mago Orry-Kelly: a lui dobbiamo l’onirico raso rosa di Gli uomini preferiscono le bionde, il torrido bolerino tropicale di Follie dell’anno, gli occhiali di Come sposare un
milionario e la triste sensualità delle calze smagliate di Fermata d’autobus. (Paola Cristalli)

Giovedì 12 luglio, ore 21.45, Piazza Maggiore
SABRINA (USA/1954) di Billy Wilder (113’)

Era una persona così ricca, così comunicativa. Ma era davvero “sexy”? Fuori dallo schermo era solo un’attrice. Molto magra, molto docile, a volte sul set spariva quasi. Ma era proprio carina, adorabile, direi. Ti potevi fidare ciecamente di quel passerotto. Poi, davanti alla
cinepresa, si trasformava in Miss Audrey Hepburn. E con nulla diventava di un sexy da non credersi. Come in Sabrina, quando torna da Parigi con quell’abito mozzafiato. Dipende tutto da un elemento X, un quid particolare che qualcuno ha e qualcun altro no. Anche una persona di grande fascino può risultare del tutto insignificante sullo schermo. La Hepburn aveva quel qualcosa di speciale. Non ci sarà mai una seconda Audrey Hepburn. Lei resterà per sempre un’immagine del suo tempo. Non potrà mai essere duplicata né trasportata in un’altra epoca. Quel Givenchy è stato indossato una volta per sempre. (Billy Wilder)

Wilder amava Sabrina, che sentiva essere tra i suoi film meno saldi nella storia del cinema, per via della sua “delicatezza” (e la presunta mancanza di spessore e veleno è quanto ancora delude certi critici). Parlandone con Cameron Crowe, molti anni dopo, ricordava soprattutto gli attori e gli abiti. Come Audrey Hepburn fosse responsabile del patto magico che il film stringe col pubblico dalla prima immagine, e che non si scioglie più; come William Holden offrisse una grande performance di virtuosismo comico e tono muscolare (era affascinato dalla naturalezza con cui Holden saltava le balaustre e le portiere delle automobili); come Bogart, seconda scelta per la consueta indisponibilità di Cary Grant, proprio nel suo costante umor nero trovasse la nota perfetta per Linus Larrabee. Che Wilder accreditasse a Givenchy una partecipazione quasi autoriale al film è poi argomento illuminante. Strutturalmente Sabrina procede per epifanie, per tagli di montaggio, di luce e di stoffa che lasciano dietro di sé una lunga eco visiva, e demarcano i passaggi: la
panoramica verticale che svela a David la ragazza in abito, cappello e valigie da parigina sofisticata (affermazione della nuova Sabrina), l’apparizione nel vestito da ballo, farfalla dalle ali appena spiegate (ingresso nel mondo di David), l’abito di raso nero che si gonfia
intorno al corpo di lei dolcemente ubriaca e allungata sul tavolo delle riunioni “disegnando l’immagine di un cigno” (ingresso nel mondo di Linus), e infine quel sublime grado zero della couture e del travestimento, la calzamaglia nera da ballerina o da Musidora, che tra
le ombre dell’ufficio di Linus (uno dei momenti più sofisticati dello straordinario lavoro di Charles Lang) la configura nella sua nudità sentimentale. Il canone d’eleganza che il film andava a fondare si sarebbe rivelato più longevo e cosmopolita di quanto chiunque, allora,
avrebbe potuto immaginare; e Sabrina avrebbe trasformato una cristallina inattualità nella capacità autorigenerativa propria delle favole, capaci di resistere a mille ascolti, a mille visioni. (Paola Cristalli)

Venerdì 13 luglio, ore 21.45, Piazza Maggiore
L’APPARTAMENTO (The Apartment, USA/1960) di Billy Wilder (125’)

Naturalmente, avere a disposizione Lemmon anziché un attore qualsiasi era un bell’aiuto. Gli attori come Lemmon sanno istintivamente quando fermarsi, quando scatterà la risata. Ho avuto la grande fortuna di lavorare con veri professionisti. Quando si scrittura un attore non si può andare contro la parte. Sapevo che Shirley MacLaine sarebbe stata perfetta: bastava lasciarla fare. E nell’Appartamento è stata superba. (Billy Wilder)

Mescolare commedia e dramma è notoriamente difficile, ma L’appartamento lo fa sembrare facile. Come un Martini perfettamente dosato, il film ha quel tanto di emozione che basta a compensare il suo paralizzante caustico cinismo; come la migliore salsa agrodolce,
non permette mai che il sentimento abbia la meglio sull’asprezza, o viceversa. Il risultato è uno dei film più amati e appaganti di Billy Wilder. Tra satira spietata e fascino esuberante, L’appartamento alterna momenti dolorosi come un pugno allo stomaco e scene
esilaranti. Ispirandosi a un’idea scribacchiata dopo aver visto Breve incontro (1945), Wilder prende la storia pruriginosa di un impiegato che per far carriera presta il suo appartamento ai superiori in vena di scappatelle e la trasforma in una sorprendente e sentita difesa della dignità umana. Jack Lemmon, mai così divertente e così commovente, è un uomo che fa del suo meglio per conformarsi a una cultura volgare, superficiale e spudoratamente sessista. Shirley MacLaine infonde un brio corroborante in colei che è una vittima di tale cultura, una donna che sembra prendere le distanze da se stessa esprimendo commenti taglienti sul proprio pathos. Sono circondati da un cast di personaggi secondari disegnati con il tratto elastico ed esuberante delle caricature di Al Hirschfeld, cui Wilder e I.A.L.
Diamond mettono in bocca battute gioiosamente chiassose e intelligenti. Le scenografie di Alexandre Trauner (sue quelle di Les Enfants du Paradis), valorizzate dall’incisiva fotografia in bianco e nero di Joseph LaShelle in formato widescreen, ricreano con ricchezza e verosimiglianza la New York degli anni Cinquanta, dall’enorme e alienante ufficio – citazione visiva di La folla (1928) di King Vidor – alla vissuta semplicità dell’appartamento. Wilder si portò a casa tre Oscar (sceneggiatura, regia e miglior film) e lasciò agli spettatori la vigilia di Natale più allegramente deprimente, la partita di carte più struggente e forse la più esilarante preparazione di un piatto di spaghetti. (Imogen Sara Smith)

Sabato 14 luglio, ore 21.45, Piazza Maggiore
LA FIAMMA DEL PECCATO (Double Indemnity, USA/1944) di Billy Wilder (107’)

Charles Brackett, sceneggiatore complice di Wilder, aveva rifiutato di scrivere Double Indemnity: definiva la storia di James M. Cain “puro trash”. Lo scandalo del film è infatti quello di trattare vite degradate di gente comune, dietro le facciate piccolo borghesi delle
colline di Los Angeles. Non c’erano nemici pubblici e donne di dichiarato malaffare, ma una storia ispirata a un fatto di cronaca realmente accaduto. I dialoghi furono adattati da un Raymond Chandler insoddisfatto e acido, al tramonto di se stesso e incapace di intendersi con il regista. Riascoltati oggi, nell’originale come nel doppiaggio d’epoca, sembrano scolpiti nella pietra delle convenzioni, senza un errore o un cedimento, intenti a restituire, con poche parole, il male e la disillusione, il cinismo come unico compagno della lussuria. Non si può non rimanerne soggiogati. Le ombre, il bene che smarrisce i suoi confini, la passione che diventa coazione al delitto. Ma soprattutto la donna che si disfa della famiglia puntando solo al denaro, all’indipendenza dai legami e dai doveri, costi quel che costi e cioè poco, l’uccisione del marito disamato e la dannazione dell’amante mai amato. Barbara Stanwyck è per tutte e per tutti “la” dark lady, la più glaciale. La parrucca che le fa indossare Wilder la imbruttisce e la involgarisce, ma sono quei pesanti e artefatti riccioli biondi a dettare, d’ora in poi, le regole estetiche della femme fatale. E, naturalmente, quel braccialetto alla
caviglia che colpisce e stordisce Neff a prima vista, come un narcotico, un punto di non ritorno nella femminilità ricreata dal cinema. La Seconda guerra mondiale aveva strappato gli uomini all’America, le donne erano rimaste sole, costrette a lavorare e a mantenersi, l’immagine di bimba, fanciulla, moglie e madre protetta s’era definitivamente frantumata.
(Piera Detassis)

Barbara Stanwyck non si era mai trovata a interpretare una donna altrettanto fredda, egoista e calcolatrice. “In lei è subito scattato qualcosa” commentava Wilder all’epoca. Retrospettivamente, la versione riportata da Barbara Stanwyck è un po’ più complessa: dopo che Wilder le ebbe inviato la sceneggiatura e lei l’ebbe letta, in un primo momento ne fu spaventata. Di personaggi duri ne aveva interpretati, ma mai un out-and-out-killer. Per questo era un po’ spaventata; così, quando andò da Wilder, gli disse: “Il testo mi piace, e mi piace lei; ma dopo tanti ruoli eroici mi fa abbastanza paura dover tutt’a un tratto impersonare una cinica assassina”. Al che Billy Wilder, guardandola dritta in faccia, le chiese: “Ma lei è un topo o un’attrice?”. E Barbara Stanwyck rispose: “Un’attrice, spero!”. “E allora reciti quella parte!” “Recitai la parte, e gliene fui molto grata”. (Hellmuth Karasek)

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